Google
nel blog

lunedì 28 marzo 2011

LA NEBBIA DI LONDRA

Per illustrare il cattivo funzionamento della giustizia inglese dei propri tempi il grande scrittore Charles Dickens ha scritto pagine memorabili nelle quali parlava di processi lunghissimi, infiniti, sempre uguali a se stessi, nei quali generazioni di avvocati si susseguivano proseguendo la medesima causa, cercando, di decennio in decennio, di apportare nuovi mezzi di prova, nuovi precedenti giurisprudenziali, nuove estenuanti e non decisive ricerche. Il romanziere, utilizzando mezzi espressivi che sono propri dei grandi della letteratura, dà il senso dell’immobilismo della giustizia del tempo evocando l’immagine della città di Londra avvolta dalla tipica nebbia inglese che tutto ricopre, nasconde alla vista, creando una visione spettrale, immobile, quasi surreale.
Circa otto anni fa ho avuto l’opportunità di essere nominato giudice onorario del Tribunale della città in cui vivo. Si tratta di una esperienza della quale vado fiero; certo, non mi potevo considerare un magistrato a tutti gli effetti, per carità, ma comunque mi avevano dato da smaltire parte dell’arretrato dei processi civili del locale Tribunale e vi erano anche controversie complesse e di notevole valore.
Nel 2003 mi era arrivata una causa cominciata nel 1978, esattamente venticinque anni prima e, peggio ancora, la causa era nella fase istruttoria di primo grado, cioè quasi all’inizio. Andando di quel passo e calcolando le varie fasi di appello e Cassazione quel processo avrebbe potuto durare quasi come la vita media di una persona.
In questo arco temporale, dal 1978 al 2003, tutti gli avvocati della causa erano morti; del resto, forse, le parti in lite avevano optato per avvocati di una certa esperienza, quindi di una certa età e, si sa, venticinque anni sono un periodo di tempo non trascurabile rispetto alla durata media della vita umana.
Nel frattempo erano morti anche i litiganti; all’udienza di (obbligatoria) comparizione delle parti sono venuti i figli, i quali erano abbastanza sorpresi del fatto di dover investire una mattinata del loro tempo per una controversia della quale avevano sì sentito parlare quando erano ragazzini, ma che non ricordavano e che comunque pensavano in qualche modo risolta.
Cos’era successo durante tutto questo tempo? Anzitutto si era proposto con infinita frequenza il meccanismo che è (o forse era) il vero dramma del processo civile italiano, cioè l’udienza di mero rinvio: gli avvocati, senza neppure ricordare di che cosa tratti la causa, chiedono concordemente un rinvio ed il giudice, senza preoccuparsi troppo delle motivazioni della richiesta, lo concede, magari di sei mesi, otto mesi, un anno.
Ovviamente vi sono altre evenienze che hanno contribuito al raggiungimento di queste durate incredibili: frequenti trasferimenti del magistrato ad altra sede, dato che le sedi piccole sono normalmente “di passaggio” per i magistrati e la conseguente attesa per l’arrivo del giudice nuovo; la maternità del magistrato, che sembrerebbe avere durate incredibili, non compatibili con la fisiologia umana.
Ma tutti hanno dato un ottimo contributo al raggiungimento del risultato: il geometra nominato per una perizia tecnica, al quale erano stati dati novanta giorni per l’espletamento dell’incarico, dopo due anni non aveva ancora fatto nulla ed era stato sostituito. Il nuovo non aveva fatto tesoro dell’esperienza del predecessore dato che, essendogli stati concessi novanta giorni di tempo, pure lui dopo due anni non aveva fatto nulla e pure lui è stato sostituito.
Abbiamo quindi avvocati, alcuni ancora vivi, altri purtroppo deceduti; magistrati, che forse non ricorderanno la causa o per i quali già otto anni fa si affievoliva il ricordo del piccolo tribunale di provincia nel quale in gioventù prestarono servizio; geometri poco attenti alle scadenze; litiganti non sopravvissuti alla lunghezza del processo che avviarono, i loro eredi un poco sorpresi e confusi, tutti quanti trascinati in una storia surreale, presi in un gorgo incontrollabile, avvolti anche loro dalla nebbia londinese, fitta, impenetrabile, sempre uguale a se stessa, eterna.
E’ facile sparare sulla Croce Rossa, dice il detto popolare ed è facile criticare il sistema giudiziario italiano. Aggiungo solo questa.
In un piccolo tribunale posto in una zona a forte presenza di malavita organizzata i tempi di attesa per ottenere del Giudice delle Indagini Preliminari un provvedimento di custodia cautelare sono di circa un anno. Credo che questo significhi che quando i Carabinieri hanno individuato una persona da arrestare e non ci sono i requisiti per procedere ad un fermo, devono aspettare un anno per ottenere ed eseguire il provvedimento. Il che significa anche che il delinquente che non si fa cogliere sul fatto, ma dopo, ha comunque un anno di tempo per proseguire con calma le proprie attività. Ma significa anche che nella “concorrenza internazionale” tra ordinamenti penali, il nostro è, agli occhi dei delinquenti, purtroppo assolutamente vincente ed in grado di richiamare interessati da tutte le parti del mondo.
Insomma i buoni, cioè i carabinieri ed i danneggiati dal reato, sembrano avere la peggio ed i cattivi sembrano, almeno per il momento, avere la meglio.
Del resto, a pensarci bene, sempre un procedimento, civile o penale che sia, ha un buono, che ha ragione ed un cattivo, che ha torto. Chi ha torto è favorito da una giustizia lenta e scadente, chi ha ragione ne è danneggiato.
In conclusione esprimerei due grossi dubbi. Il primo è che non sono sicuro che nel riformare la giustizia non prevalgano gli interessi di chi ha tutto da perdere da una giustizia efficiente ed efficace. L’altro dubbio è che una riforma costituzionale, che porta via due anni di lavoro parlamentare, “non ci azzecchi nulla” con le situazioni paradossali che la nostra giustizia spesso crea.

Nessun commento:

Posta un commento